venerdì 30 gennaio 2015

Parentesi di miseria.

È dimagrita ancora. Con tristezza guardo il suo corpo invisibile e mi torturo. Sto male, sto male. Vorrei gridare ma non sono capace, ho un misterioso e atroce dolore che mi distrugge il cuore. Ho voglia di piangere, mi sento sola. Non so perché scrivo con la mia piccola parte sensibile, quella che nascondo dietro freddi ragionamenti.
Sta sera sto soffrendo mentre la guardo ballare, sto soffrendo e non riesco a descriverlo. Ho solo voglia di non mangiare più per il resto della mia vita.
Perché è tutto cosi ingiusto, così terribilmente vero? I chili pesano uno dopo l'altro, non posso guardarla.
Perché?

mercoledì 28 gennaio 2015

La felice condanna: la dipendenza.

La terra si è sgretolata lentamente sotto i miei piedi, una pianta che cresceva in mezzo alla mia testa, una divisione ottimale per la creazione del Mondo Nuovo in questo vecchio cervello.
Gridavo pace e incassavo rabbia, domandavo pietà e mi scagliavano sassi, le sue gambe secche mi vorticavano nel cervello come funi strette e dolorosamente frust(r)anti.
Non sono pronta alle vittorie degli altri, più che alle mie sconfitte: le ultime mi recano meno dolore.
Sono una immensa palude in cui non si distinguono pensieri e parole e azioni: la condanna dell'Essere, quell'insostenibile leggerezza che Kundera tanto condanna. "La merda che abbiamo sotto i piedi" abilmente nascosta da alti palazzi, strade asfaltate, facciate decorate: la merda è merda, qualsiasi maschera le si metta.

Il suo corpo sottile la rende deliziosamente invisibile ma per me è abbagliante, probabilmente vedo oltre le cose. La sua meravigliosa leggerezza io non la sostengo, questo sì. "La Venezia di merda sotto le gondole e il cielo stellato"; quella forma assurda del cesso. L'Essere umano come qualcosa di meno profondo, e il tuo stomaco vuoto mi rende triste e abbattuta come una pezza stropicciata e umida di pianto.
Perché sei così magra, quando nel cervello di tutti sei ancora grassa? I tuoi chili lasciati per strada, trascinati come cadaveri fetenti, li raccoglierei come immondizia e te li porgerei per vendetta; il tuo seno strappato come cucciolo morto alla madre che disperata lo piange e cerca di trattenerlo; il mio, vivo, insieme al peso dei fallimenti, unti e appiccicosi come miele.
Perché sei magra?
Perché mi rendi così malinconica, in una inspiegabile danza di lacrime e sogni accartocciati? Hai il potere di strapparmi le parole e farmi deglutire quelle bloccate in gola, impedendomi (mio malgrado) di soffocare. Ieri sera ti fissavo e non riuscivo a smettere di farlo: sei un secco fuscello, un chiodo troppo appuntito, spigolosa, sottile come un foglio di carta. Mi fai impazzire: vorrei chiuderti in una stanza e interrogarti per ore, vorrei analizzare ogni tuo angolo di pelle, trovare i segni della tua autodemolizione, vorrei toccare le tue ossa consumate dalla determinazione, vorrei portarti via dal mondo e cercare di capirti, sei troppo magra. Piango, ci separa il tempo, nient'altro, lo sento e lo vivo. Le tue sofferenze atroci sono le mie, penso di volerti morta nella tua perfezione.
La mia anima ti strappa il cuore dal petto: io non sono niente, mentre tu sei ME.
Le mie mancate vittorie si trasfigurano in te come immense conquiste ed io ti guardo, incantata, persa nel buco delle tue gambe fragili da spezzarle con un colpo di frusta.
Le tue funi contese, le tue parole e la tua miseria: tutto impacchettato in un corpo meravigliosamente anoressico.
Eri grassa e non riesco a sopportarlo, mi ferisce e mi strazia eppure ti guardo e vorrei rubarti alla vita, strapparti al mondo.
La felice condanna: la dipendenza.

giovedì 22 gennaio 2015

La contagiosa bruttura.

Ho pensato queste tre parole per descrivere una situazione dolorosa: sono una simbolista! (?!). Sono le sole parole che possano riassumere tutto. Ieri sera è uscito (di nuovo) fuori il discorso università.
Maledetta me, maledetta la mia incapacità di comunicare, maledetti i miei voti sproporzionati (9 a 7 per le materie umanistiche, netto sorpasso), maledetto il liceo scientifico che faccio: maledizione.
"Questi sette nelle materie scientifiche..."
"Già, io odio le materie scientifiche, con tutto il cuore."
"Eppure quanti lavori si trovano con una laurea in una materia scientifica! Guarda P., una laurea in matematica e due proposte di lavoro a 1500€ al mese! Guarda Tizio, laureato in ingegneria! E il nostro zio Caio, con una laurea in patate e cipolle fritte che è presidente degli Stati Uniti d'America!"
Ed io muta. Muta come sempre, io non so rispondere. Avrei forse potuto rispondere scrivendo.
Io e la mia maledetta filosofia, io e il mio abbaglio, io e il mio anticonformismo (?!) del cazzo.
Io e il mio credermi diversa, io e il mio voler essere diversa.
Io e i miei digiuni che non mi portano da nessuna parte (semi-digiuni. Una spremuta e uno yogurt alla soia). Io e le mie maledette fisse nel mio mondo MALEDETTO, i miei giorni maledetti, i miei libri maledetti, il mio sapere "di più", il mio maledetto voler andare OLTRE. Ci sono altri modi per andare oltre.
E allora perché non mi metto SERIAMENTE a cercare una facoltà SERIA e decidere per una laurea SERIA che mi apra possibilità SERIE, non dico certezze, ma possibilità?
Io e la mia maledetta idea di futuro.
Quello che faccio delle mie giornate è avere tremila cose da studiare ma comprare nuovi libri di filosofia: filosofia orientale, filosofia greca, Schopenhauer e Leopardi a confronto, Kundera, filosofia di qua, saggi di là, De Rerum Natura, Elogio della follia, io li LEGGO.
Mi chiudo in camera, lascio i libri di matematica e fisica abbandonati, le verifiche fatte a cazzo, i 4, i 5, i salti mortali per recuperare e non arrivare all'esame con nove in latino filosofia e lettere e cinque in matematica, fisica, scienze; me ne sbatto il cazzo (ops, scusate) di tutto e leggo. Scrivo, interpreto, cerco. Studio studio studio e voglio capire, voglio confrontare, voglio sapere.
E poi non so niente di politica, non capisco di geografia, non so affrontare le più semplici situazioni. Digiuno, mi abbuffo e studio, scrivo, divento pazza.
Arriva un nostro zio a cena, uno zio grasso come un maiale da macello e critica il fatto che mia mamma ha cucinato l'orata perché il mare è inquinato e che lui mangia solo alici fritte, come pesce, le alici del suo mare.
E poi ha le dita quanto una mia coscia.
E lo guardo con disgusto ingiustificato accanto a mio padre mentre guardano la partita e se la ridono perché io voglio fare filosofia. Cambierà idea, e nel frattempo io penso
"la contagiosa bruttura. Contagiosa e infetta come la peste, marcia e schifosa, putrida con il suo tanfo di merda."E poi mi verrebbe da picchiarmi: ma cosa penso? Di essere l'unica al mondo ad avere un mondo interiore? Di essere profonda solo io perché leggo libri che nemmeno capisco? Ma cosa penso? Che farò davvero filosofia? Addirittura penso "perché voglio fare filosofia?" "perché ho una sola vita per fallire clamorosamente, essere una fallita e sentirmi chiamare fallita. E non voglio certo perdere l'occasione!"
Poi piango. Devo trovare in fretta una facoltà, i test sono ad ottobre ma devo iniziare a studiare se voglio entrare in una qualsiasi università scientifica. Mi ripeto "Se amo una cosa non posso forzarmi a farne un'altra" ma poi concludo "Perché no? Lo faccio tutti i giorni!"
E poi mi sento una sposa a pochi passi dall'altare. "forse non amo così tanto la filosofia. Forse ho preso un grandissimo, fottutissimo abbaglio"
E mi suonano in testa le parole dei miei, i soldi che arrotolano e buttano nel cesso per mantenermi e farmi diventare una persona per lo meno con un futuro.
Ma, come dice Kundera, io non voglio un futuro. Perché il futuro include la fine.
Io voglio l'infinito. Non lo voglio il futuro.

giovedì 15 gennaio 2015

Grido nel mio deserto.

Le parole si spengono in gola.
Sono circondata da un vuoto.
Un vuoto triste, un profondo buco infinito in cui seppellisco le consapevolezze scomode.
La verità è che sono sola, più che mai.
Sono sola e non riesco a farmi sentire, a farmi capire, non riesco a circondarmi di nessuno, non riesco ad avere nessuno con cui parlare, la cui anima si accosti alla mia. Sento tutti così distanti, sento tutti così soli...
Questa sera non trovo le parole.
Perché mi sento troppo sola.
Ma vorrei dire così tante cose...
VORREI DIRE TANTE COSE, MA NON CI RIESCO.
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sabato 10 gennaio 2015

FEROCEMENTE

Ferocemente disgustata. Questa sera vorrei aggiungere un dettaglio di me che forse chi mi ha aggiunta su fb ha notato, ma che a me non piace molto confessare: ho  i denti storti. Da bambina ho portato l’apparecchio mobile per cinque anni, sopra e sotto, solo che poi è cresciuto un dente in più e si è storta tutta la bocca.
Un paio di anni fa ho rimesso un apparecchio mobile (proprio nel periodo in cui ho iniziato ad ammalarmi di binge) che però, dopo un anno, ho iniziato a non portare più.
Non vi racconto tutta la pappardella ma, arrivando al sodo, proprio due settimane fa il dentista ha ufficialmente detto che il mio caso non è curabile. Sono dovuta andare da un professore spendendo una schioppettata di soldi perché nessun altro dentista riusciva a fare nulla, così, dopo il tentativo dell’apparecchio, due settimane fa il responso: “Dovresti togliere quattro denti, portare un apparecchio fisso e fare un’operazione chirurgica per spostare di tot gradi la tua mandibola, e anche facendo ciò non saremmo sicuri dei risultati. Cosa vuoi fare?”.
Ho salutato il dentista e ho scritto una nota sul cellulare

“Parlare non mi è mai sembrato inutile come adesso che il dolore strappa dall’anima ogni tentativo di comunicazione con il freddo mondo circostante
Sola.”

Io sono dovuta ingrassare per questo. Non ve l’ho mai raccontato ma quando ero anoressica (avevo l’anoressia…) le mie ossa erano decalcificate: nulla di preoccupante come molte di voi, purtroppo non sono mai stata degna di aiuto, però questo problemino non mi permetteva di mettere l’apparecchio. Per questo l’ho potuto mettere solo l’anno scorso.
Quello mobile, che mi faceva parlare come una stupida, senza il diritto di lamentarmi perché era per il mio bene, perché tutti i bambini lo portano (sottolineo che avevo 17 anni e nessuno ha l’apparecchio mobile a diciassette anni, anche se sinceramente non me ne freghi molto, visto che dire ad un malato di tumore “molta gente ha un tumore” non lo solleva certo di morale), perché io devo stare zitta.
Così ho iniziato ad abbuffarmi. È uno dei millemila motivi, ma è uno.
E quando ho saputo che resterò così per sempre io ho pensato soltanto “Anche Leopardi era deforme”.
Che egoista, che pensiero di merda, che stupida.
Non ve l’ho mai scritto perché non volevo che mi rispondeste “Anche io avevo l’apparecchio a sei anni!” “Io l’ho portato cinque!” “Ti capisco, anche una mia amica ce l’ha!”.
Ma fate pure, tanto è così. E va bene. Del resto certe sofferenze sono inspiegabili, del resto ho incassato, del resto ormai ho imparato che non sono questi i problemi.
Questo discorso mi sembra stupido, non so perché sto scrivendo, e sto anche piangendo come una sciocca bambina capricciosa.
Vi prego, non commentate la parte dell’apparecchio. Lasciate perdere questo post, non voglio autocommiserarmi né sentirmi dire poverina né ti capisco né che anche voi lo avete portato né che non sono deforme.
Lo so lo so lo so.
Vorrei solo smettere di piangere, adesso, ma non vedo il motivo per farlo.
Voglio solo soffocare tutto questo nella torta al limone che ho visto prima al supermercato, e nella nutella bianca, ma non so proprio quando uscire a comprarle. Devo studiare e non ho tempo e domani ci sono i miei a casa. Non desidero una parola, desidero abbuffarmi. Scusate se i miei post non parlano mai di me, ma solo delle brutte sensazioni che mi attraversano la spina dorsale e mi paralizzano su una sedia senza riuscire nemmeno a descrivermi attraverso uno schermo.
Un giorno sarò capace di cullarmi nelle emozioni senza zittirle con le abbuffate.
Cosa mi manca?
Cosa mi rende così infelice? Perché non riesco a smettere di pensare alla nutella bianca? Alla torta ripiena di limone cremoso, alla pizza avanzata che sta in cucina?
Potrei partorire pensieri geniali, in questo momento; potrei, invece di lamentarmi, alzare il mio culone e scrivere la mia vita iniziando ad andare a dare una mano a mia mamma, apparecchiare, studiare.
Eppure sono qui a cercare le parole con le quali esprimervi la metà delle cose che vorrei… ma non esce nulla, non questa volta, solo frasi pietose e sconclusionate.
C’è qualcosa che mi blocca, c’è qualcosa che mi impedisce di stare bene. Sono tormentata.

Questo l’ho scritto l’altra notte:

Mi muovo nella mia vita, impacciata. Corro in cerca della salvezza, di quella Santa Pace con la mia anima, di quell’armistizio che come una stella o una galassia fluttua inconsistente a migliaia di anni luce da me.
Ogni parola rimbomba a vuoto e mi sembra di sprecare fiato, idee, forza. Sono il burattino della mia materialità, la bambola della mia consistenza, legata con stretti nodi alla mia inettitudine.
Ogni giorno si stringe e muore nell’altro come nel grembo raggrinzito e secco di una madre sterile: i propositi marciscono logorati dall’agitazione e dalla fretta e dal bisogno di realizzarli. I pensieri si consumano limati dalla loro ripetitività instancabile.
Il cielo illumina Torino in una notte profonda, silenziosa, fredda. Non ho sonno, cerco una ragione per cui dovrei svegliarmi domattina ma non la trovo se non nelle cose materiali che mi appartengono ed in quelle che vorrei. Lascio che le aspettative rimbalzino sul mio cervello occupato, aspetto che le passioni si rivelino capricci e che le decisioni perdano sicurezza perché so di non poter essere sicura.
Ho scelto la vita sbagliata e me ne pento, e sento le mie vocazioni premermi sulle tempie togliendomi il fiato e i battiti.
Non capisco perché esprimermi mi è così difficile, così impossibile e così inutile. Le parole si riassorbono come ferite; i sordi muri dell’indifferenza mi tengono prigioniera di pensieri inconcludenti. Poco di utile in mezzo a tanta apparente utilità; quasi nulla di profondo in cuore duro come pietra.
Il crudo cinismo taglia di menzogna ogni sillaba pesante e affilata; la mia maschera mi punge e mi ferisce, ma nasconde il sangue secco e quello fresco su una faccia rotonda e poco espressiva.
Vorrei sollevarmi insieme ai miei pensieri lontana dal mondo, lontana dall’infelicità e l’incomprensione che trattiene e violenta i miei simili.

 E questa qualche giorno fa:

Mutismo mostruoso.
La rovina della mia vita è la mia vita e chi mi ha dato la vita. Il silenzio mi piomba addosso come un sasso, non so fare silenzio e non posso deglutire il tempo ormai saturo di tutte le parole che non vorrei aver scritto. Non vorrei essere stata quella persona ch’ero, non vorrei esser cresciuta a poco a poco e non vorrei dover deturpare questa pagina bianca adesso per sporcarla di cose che domani non penserò più.
L’errore più profondo è il passato in tutte le sue forme, ed è per questo che i ricordi spazzano via come una scopa tutto l’orrore che lo percorre, lasciando nel cuore una deliziosa sensazione chiamata nostalgia. Se non siamo più ciò che eravamo non è forse perché, almeno in parte, lo ripugnavamo? Il cambiamento risiede in piccole dosi nei bocconi amari del dispiacere di cui ci nutriamo quotidianamente. Non ci accorgiamo forse di prendere drastiche decisioni? Scrissi un giorno: motivazioni banali dietro scelte profonde e radicali.
Potrà mai qualcuno comprendermi? Certamente, non appena imparerò ad esprimermi. Perché non ne sono in grado, come i grandi scrittori, poeti, Maestri?
Ricevo commenti pesanti, dolorosi e cerco di ignorarli: lascio che il tempo scorra sotto i miei piedi ed io provo a cambiare, certa che ce la farò.
Questa volta è la volta, ed io saprò essere vincitrice. Sono il Dio di me stessa.

Ne ho scritti molti altri ma è inutile che io li posti qui. So che è abbastanza sciocco quello che scrivo, più che altro sono tante parole che sembrano chissà che, ma io non riesco ad esprimermi in altro modo. Non sono capace a raccontarvi della mia vita e mi dispiace. A me piace leggervi, mi fa crescere… quello che purtroppo produco io è solo uno sfoggio di niente.
Un bacio a chi mi leggerà… spero che un giorno potrò scrivere anche io qualcosa di positivo che possa incoraggiarvi, invece di questa merda. Spero che troverete, un giorno, un motivo per starmi ancora dietro… perché è la cosa che mi consola e mi fa sentire amata di più!

lunedì 5 gennaio 2015

La giostra.

In questi momenti penso a Zeno Cosini. Quanto amo quel libro... Oggi mi rivedo in lui. Mi rivedo in lui tutti i giorni, in realtà... Ecco perché piango ogni volta che lo rileggo, anche solo pochi pezzettini... No, non sarà questo il solito post di pippe mentali e puttanate con cui cerco di mascherare la miseria della mia vita ripetitiva e la bassezza dei miei gesti noiosi, frutto di un dolore stantìo.
Mi sono abbuffata, insomma. Mille propositi, mille parole, mille promesse...eppure, eccomi qui. Sono sempre io. Sono lo Zeno Cosini della mia vita: ancora non ho tappezzato il muro di casa mia con date di svolta, date in cui "da domani smetto", non scrivo quelle date con colori ancora più accesi per sovrastare il proposito precedente, non annoto tali date in tutti i miei libri, ossessivamente: niente di tutto questo. Ma in fondo succede così, sempre.
E piangere, sbattere i pugni sul tavolo e dire cazzo, credere che poteva andare meglio questa volta, cercare una scusa tra le mille, tra lo stress, la tristezza, lo sconforto, è solo una perdita di tempo.
NON SI PUÒ FARE NIENTE.
E sono qui, mi sono abbuffata. Tre pacchi di kit kat bianchi, una tavoletta di cioccolato bianco, metà pacchetto di wafer da 175g, salsiccia, formaggio, formaggio fuso. Ed ho avuto il coraggio di cenare ancora, con fresella, olio, sale, salame.
Non ho niente da dire. Mi servo delle parole di D'Annunzio che, ne "Il piacere" consigliatomi da Euridice (finalmente ho approfittato delle vacanze per leggerlo, è straziante e geniale, ho pianto che novità!), esprime come meglio non saprei fare io tutto quello che adesso mi attanaglia il cuore e lo stringe con violenza.

Ma egli non s'era mai trovato in una disposizion di spirito più inquieta, più incerta, più confusa; non aveva mai provato dentro di sé uno scontento più molesto, un malessere più importuno; né mai aveva provato contro di sé medesimo impeti d'ira e moti di disgusto più crudeli. Talvolta, in qualche stanca ora di solitudine, egli si sentiva salire dalle profonde viscere l'amarezza, come una nausea improvvisa; e rimaneva là ad assaporarla, torpidamente, senza aver la forza di cacciarla fuori, con una specie di rassegnazione cupa, come un malato che abbia perduta ogni fiducia di guarire e sia disposto a vivere del suo proprio male, a raccogliersi nella sua sofferenza, a profondarsi nella sua miseria mortale. Gli pareva che di nuovo l'antica lebbra gli si dilatasse per l'anima e di nuovo il cuore gli si vuotasse per non empirsi più mai, come un otre forato, irreparabilmente. Il senso di questa vacuità, la certezza di questa irreparabilità gli movevano talvolta una specie di collera disperata e poi un disprezzo folle di sé medesimo, del suo volere, delle ultime sue speranze, degli ultimi suoi sogni. Egli era giunto a un terribile momento, incalzato dalla vita inesorabile, dall'implacabile passione della vita; era giunto al momento supremo della salvezza e della perdizione, al momento decisivo in cui i grandi cuori rivelano tutta la loro forza e i piccoli cuori tutta la loro viltà. Egli si lasciò sopraffare; non ebbe il coraggio di salvarsi con un atto volontario; pur essendo in balia del dolore, ebbe paura d'un dolore più virile; pur essendo travagliato dal disgusto, ebbe paura di rinunziare a ciò che lo disgustava; pur avendo in sé vivo e spietato l'istinto del distacco dalle cose che più parevano attrarlo, ebbe paura di allontanarsi da quelle cose. Egli si lasciò abbattere; abdicò interamente e per sempre alla sua volontà, alla sua energia, alla sua dignità interiore; sacrificò per sempre quel che gli rimaneva di fede e d'idealità; si gittò nella vita, come in una grande avventura senza scopo, alla ricerca del godimento, dell'occasione, dell'attimo felice, affidandosi al destino, alle vicende del caso, all'accozzo fortuito delle cagioni. Ma, mentre egli credeva con questa specie di fatalismo cinico mettere un argine alla sofferenza e conquistare se non la calma almeno l'ottusità in lui di continuo la sensibilità al dolore diveniva più acuta, le facoltà di soffrire si moltiplicavano, i bisogni e i disgusti aumentavano senza fine.

Un ribrezzo di sé e del suo vizio l'invase. -Vergogna! Vergogna! - La disonorante bruttura gli pareva indelebile; le piaghe gli parevano immedicabili; gli pareva ch'egli dovesse portarne la nausea per sempre, per sempre, come un supplizio senza termine. -Vergogna! - Piangeva, chino sul davanzale, abbandonato sotto il peso della sua miseria, affranto come un uomo che non veda salvezza; e non vedeva le stelle riscintillare a una a una sul suo povero capo, nella sera profonda.

Un gran silenzio le vuotò l'anima. Le si aprì, dentro, uno di quegli abissi in cui tutto il mondo sembra scomparire all'urto d'un pensiero  unico. Ella non udiva più altro; ella non udiva più nulla.

giovedì 1 gennaio 2015

Chi vomita a capodanno...


ebbene sì, ho vomitato. Per ribellarmi ad una madre che odio, che vorrei morta, vorrei morta.
ribellione inutile. Deleteria, inutile. Ma non riesco a reagire diversamente. Sto imparando. Mi dispiace che lei sia riuscita ancora a rovinare, a distruggere quel che di buono ero riuscita a creare in questa magica notte... Ce l'ha fatta, ancora una volta. Avevo passato finalmente una notte speciale con il mio ragazzo, solo io e lui, in un albergo piccolo prenotato il giorno prima, in pigiama a mangiare fiocchi di latte e ridere come matti fino alle quattro del mattino... Siamo anche riusciti a renderlo segreto raccontando a tutti di passare il capodanno con amici, amici di amici, descrivendo anche case di questi amici ai curiosi... Eppure lei ha rovinato tutto, oggi. Una discussione nata da nulla, io che continuo a mangiare dolci per zittire il dolore... E i pensieri... Ho sognato spesso lei
Il fuoco
I vermi che divorano il suo misero cadavere
un cielo luminoso perché finalmente lei è morta
Come vorrei che lei morisse. Di una morte atroce, spregevole, una morte lenta, preceduta da un'agonia insostenibile...morta. Ho una madre che fa schifo, ho un padre che non esiste ed in corpo un odio inesprimibile.
Per questo 2015 desidero solo che lei muoia, anche se non ho il coraggio di ammetterlo, anche se non ho il coraggio nemmeno di pensarlo
Mi dispiace, mamma. Ma vorrei solo piangere su un tuo cadavere, perché mi fai schifo. Mi fa schifo il tuo grembo e mi faccio schifo io, che ci sono nata. Hai sposato un uomo che non ti ama ed è questo che meriti, è ciò che merito io. Tu fai schifo.
Ed io vorrei tanto, con tutto il cuore che tu morissi
Per me stessa e per te, soprattutto.
ed il senso di colpa mi fa abbuffare e mi ripete "Non si pensano queste cose".
buon 2015