venerdì 26 giugno 2015

Alla superficie della solitudine

Io a cena con i miei genitori.
Mio padre:
“Allora Ceci! Finalmente finiti questi esami definitivamente!”
Calcio di mia madre a mio padre sotto al tavolo.
“Ma no! Giuseppe! A Cecilia manca ancora l’orale l’8 luglio!”

Già. Peccato che no, non ho finito gli esami. E no, il mio orale non è assolutamente l’8 luglio. Solo 4 giorni prima.
E peccato che questo sia l’unico, l’unico impegno che ho da circa e per circa ancora un mese.
Ma vabbè: uno dei tanti.

E la mia vita è tutta così. Alla superficie della solitudine.
Circondata dal mondo, milioni di parole, di risate, puttanate, eppure quella sensazione in fondo allo stomaco.
Non mi sento mai sola come quando parlo con qualcuno.

Adesso in questo preciso momento la mia sensazione è questa.

Ho un sottilissimo materassino sotto al culo, galleggio sul mare profondissimo della solitudine. Sono in superficie.

Mi do qualche minuto di tempo, e tutto questo non esisterà più. Tornerà tutto ad essere mondo.

Tra poco esco con la mia compagna di solitudine. Mi porta in un posto leopardiano. Finalmente con lei posso respirare e piangere. E parlare senza un senso.

Anche se è tutto finto. Puzza tutto di plastica, alla superficie della solitudine.
Qui si sta così.



mercoledì 10 giugno 2015

Spenta: riflessioni post- Nausea


“Piccoli sprazzi di sole sulla superficie d’un mare cupo e freddo.”
Jean – Paul Sartre, La Nausea.

L’ho appena finito di leggere. Leggo “La nausea” anziché studiare per la maturità. Non c’è niente che mi importi davvero. Non c’è niente che riesca a mantenere il mio stato d’animo costante.
Faccio tutto, di tutto, per fare in modo che la mia maturità faccia schifo. Non apro libro dall’ultimo nove che ho preso di arte, dall’ultimo nove e mezzo di latino, dall’ultimo nove di matematica, dall’ultimo cinque di fisica.

Ma io nel mio cuore so che mi cadrà tutto addosso, lo sento. Sto tentando di prepararmi in tutti i modi alla disfatta, volevo anche già scrivere un post in cui vi annunciavo che da una media dell’8.3 (con un sei di fisica in pagella, sudato e voluto) sono riuscita a prendere un bell’80 scarso, o forse poco meno, e poi pubblicarlo dopo l’orale, quando ne avrei avuta la certezza.

Da quando ho letto “La nausea” niente è come prima. Niente. Ho letto molti miei pensieri in quelle pagine, come scandagliare un animo, e mi sono sentita esattamente come quegli uomini che pensano che basti un libro a scandagliare il proprio animo; come quelli che non si accorgono di essere semplicemente loro stessi.
Trasmette una grande melanconia, quell’abulia, quello stato depressivo in cui ristagno perennemente.

 “Piccoli sprazzi di sole sulla superficie d’un mare cupo e freddo”.
Si potrebbe dire il riassunto della mia breve esistenza? Certo che no. Vorrei mantenere un briciolo di personalità, quando leggo un libro: l’ho pensato parecchie volte. In fondo non so bene che personalità io abbia.
Tra tutto, l’unica cosa che so è che qualcosa continua a non andare. Raccolgo giorni e li mescolo a insoddisfazione, vergogna, noia, tantissima noia. Noia di essere me.

 “Tuttavia, sono inquieto: ecco che già da una mezz’ora evito di guardare questo bicchiere di birra. Guardo in su, in giù, a dritta e a manca: ma lui non voglio vederlo. E so benissimo che tutti questi scapoli che mi circondano non possono essermi d’alcun aiuto: è troppo tardi, non posso più rifugiarmi in mezzo a loro. Verrebbero a battermi sulla spalla, e direbbero: <<Ebbene, che cos’ha questo bicchiere di birra? È come tutti gli altri. C’è scritto: “Spatenbrau”>>. Tutto questo lo so, ma so che c’è dell’altro. Un niente. Ma non so più spiegare quello che vedo. A nessuno. Ecco: scivolo pian piano in fondo all’acqua, verso la paura.”
Non oso dire che è così che mi sento: non posso aggrapparmi sempre alle sensazioni degli altri per descrivere le mie.

Dovrò pur provare qualcosa.
E invece non c’è niente. Ho il libro accanto e un vuoto nuovo, un vuoto diverso, ed il libro è già diventato vecchio. Niente di originale in me.
Mi trascino e, a parte qualche amara sensazione che non voglio spiegare, che non so spiegare, che non servirebbe spiegare, tutto procede insieme al resto.
Ad un certo punto del libro ho pensato di abbuffarmi, non sapevo cosa provare. Poi, invece, ho pensato che no: digiunare eternamente sarebbe stato molto più soddisfacente. Sarei stata magra e nessun libro mi avrebbe più fatto male.
Fatto sta che ho mangiato uno yogurt all’albicocca senza capire cosa mi mancasse, e questa sera ordiniamo il sushi; ciò mi rende allegra, serena, preoccupata, ansiosa, indifferente? Magari! Provo solo un certo disgusto. Per me stessa e per quello a cui penso.
Disgusto perché farò un esame del cazzo e disgusto perché me ne importa TROPPO, o per lo meno più del niente che me ne dovrebbe importare.

 A chi posso descrivere tutto questo? Questo fastidioso marcio che mi sta nella punta dei piedi? Questa incomprensione questa paura, questa angoscia?

Mi annoio, ecco tutto. Ogni tanto sbadiglio così forte che le lacrime mi scendono giù per le guance. È una noia profonda, profonda, il profondo cuore dell’esistenza, la materia stessa di cui son fatto. Non mi trascuro, tutt’altro: stamane ho fatto il bagno, mi son fatto la barba. Soltanto, quando ripenso a tutti questi piccoli atti solleciti non capisco come abbia potuto farli: son così vani. Sono le abitudini, senza dubbio, che li hanno compiuti per me. Non sono morte, loro, continuano a darsi da fare, a tessere pian piano, insidiosamente, le loro trame, mi lavano, mi asciugano, mi vestono, come balie.”
Questa sera mi sono accorta che noi uomini amiamo tanto leggere delle cose che hanno senso. Questo libro non ha senso, e stranamente l’ho amato.
Quello che scrivo non ha senso. Eppure ho un disperato bisogno che qualcuno lo legga.
 Perchè?
Saranno i miei che urlano, stasera? Sarà che ho chiesto a mia mamma di far dormire il mio ragazzo a casa mia sabato, per la prima volta, dopo due anni e mezzo, e lei mi ha risposto urlando che lo volevo invitare solo per fare le nostre sporche cose?
Saranno davvero queste semplici sensazioni, queste che un minuti dopo non si provano più, né forti come quelle del principio, né forti per niente?
Sarà davvero mia sorella che chiede a mio papà qualcosa e lui urla “Che cazzo è?? Io sto lavorando!”, e sarà che lui lavora sempre, ha sempre lavorato, e non è mai esistito, mai come padre?
Davvero è questo?

Semplice disgusto. 
Questa sera è molto importante, perché non mi sono mai sentita più sola di così. Ed è importante perché è quello che dico sempre.

 “Piccoli sprazzi di sole sulla superficie d’un mare cupo e freddo”