giovedì 24 settembre 2015

La noia.

Ho appena finito di leggere un altro libro, "La noia", di Moravia.
Ho pensato che dovrei smettere di leggere, perché sto male.
Di un male molto profondo e molto fisico, ho voglia di piangere e gridare; così scrivo.
Questa mattina ero 66,5, sto continuando lentamente a scendere.
Mi sono pesata, subito, per lenire il dolore dovuto a tutt'altro, lontano dai numeri, e non è bastato.
Nemmeno il numero che scende mi appaga: forse dovrei scendere più velocemente.

Ci sono giorni in cui sento che non c'è fretta, che devo vivere, come dicevo a Kiki; altri in cui, come oggi, desidero sparire con tutte le mie forze.
Non già per un desiderio vero e proprio di essere MAGRA, ma più per quello di tenere la mia mente impegnata, illuderla di poter veramente possedere qualcosa, senza ingrassare (ergo, non abbuffandomi).

Il libro parla di un pittore fallito che soffre della noia, che lui definisce come una mancanza di rapporti con le cose.
Lui, infatti, non riesce ad intrattenere rapporti con niente e nessuno: non possiede la realtà così come non possiede la protagonista del libro, Cecilia, se non fisicamente; lei gli sfugge in quello che è, e così lui si accanisce sul rapporto sessuale con lei illudendosi di possederla ma consapevole di non farlo; alla fine tenta un suicidio che non può che rivelarsi "mancato".
Questo libro mi ha fatto molto male, e non capisco perché.
O meglio, non capisco se io stia male per il contenuto del libro in sé, per l'incapacità di vivere del protagonista, la sua incapacità di dipingere; oppure per il libro stesso, o, per essere ancora più precisa, per Moravia che lo ha scritto mentre il mio sogno è scrivere ma io non so farlo.

In breve, sto male perché il libro rispecchia ciò che sento (che originale sono, è sempre così guarda caso, va' a vedere che non sento niente!), ma io ne sono la protagonista
e non l'autrice.

Non so se mi spiego.
Non so esprimere ciò che sono, ma qualcun altro sì, e descrive me, quindi sto male.


Lunedì iniziano i corsi e, per distrarmi da tutti questi pensieri scomodi, sono andata a controllare gli orari: con grande sorpresa e piacere ho scoperto che andrò in università
lunedì martedì e mercoledì: dalle 8 alle 12 e dalle 16 alle 18 (ovviamente nello stesso giorno)
E giovedì, venerdì e SABATO dalle 10 alle 14.

Andrò in università il sabato, ma non è stato questo a sconvolgermi in positivo: guardate gli orari.
Ho una pausa di quattro ore durante la quale dovrei pranzare ma non posso andare a casa... credo che mangerò una mela tutti i giorni.

Non ho potuto fare a meno di pensarlo, mi sento vuota, mi sento male, mi sento sola, mi sento distrutta ed alterno questi stati d'animo alla gioia compulsiva ed all'euforia.
Così subito penso: devo dimagrire. Ma tanto, e non voglio mangiare più.
Mi sto disintegrando, non riesco più a sopportare tutti questi pensieri, cerco di soffocarli, di indirizzarli al mio corpo e più vedo il numero che scende, meno mi sento soddisfatta.

L'altro giorno mi hanno chiesto che università avessi scelto ed io ho detto senza nemmeno pensarci "Ingegneria chimica".
L'ho detto forse perché la mia compagna magra delle medie farà quello, o più probabilmente perché sono stanca di chi mi guarda storto e mi dice "Eh beh, filosofia. Farai la mantenuta, vero? O l'insegnante.. ma quanti insegnanti ci sono, è difficile!"
L'ho detto perché io nella mia vita voglio scrivere, ma non sono capace. né a confessarlo né a farlo.
Qual è il mio sogno? Cosa voglio fare da grande?
Scrivere, dannazione, scrivere, va bene? Ma esistono mille come me e tutto ciò che penso è già scritto, e tutti vogliono scrivere nel mondo, dovunque io mi giri trovo persone che vogliono scrivere, una mia compagna di liceo addirittura ha pubblicato un libro, perché io dovrei scrivere?
Voglio essere disperatamente diversa, invece sono uguale a tutti gli altri.
Voglio laurearmi in filosofia, voglio studiare filosofia, voglio sapere tutto, voglio pensare, voglio andare fuori di testa, voglio trovare un contatto con gli altri, voglio comunicare, non ne posso più di questo silenzio dentro e fuori, dei luoghi comuni, delle frasi fatte, delle conversazioni finte che ho su cose che non mi riguardano!

E mi sto problematicamente allontanando anche dal cibo, ci penso spesso ma se lo faccio è per non pensare ad altro, non so nemmeno che cosa, e lo faccio consapevolmente.
Improvvisamente voglio fare tutto per non pensare: abbuffarmi per non pensare, scrivere per non pensare, scendere di peso per non pensare, salire sulla bilancia fredda tutte le mattine per non pensare, stare con il mio ragazzo per non pensare, fare l'amore per non pensare!

E tutto quello che ottengo sono nuovi pensieri su quello che faccio per non pensare, tutto quello che mangio e non mangio per non pensare, tutto quello che gli altri mi dicono e che mi fa pensare e che non dovrei pensare..

Scusate ragazze non so più dove sbattere la testa, vi prometto che tornerò a scrivere di cibo e del mio rapporto con lui.
Ho bisogno di farlo perché non voglio che diventi secondario alla mia voglia di suicidarmi per non pensare più.

A volte ho persino pensato che se nella mia vita non riuscirò a diventare una scrittrice, mi suiciderò.
Ho la testa troppo piena che se non metto le cose nero su bianco esplodo.
Ed intanto mi viene il vomito quando sento i miei genitori che dicono "Eh Cecilietta bella, con filosofia... scrivi un libro! Un bel libro, un libro bello, fai un po' di soldi e vedi come ti metti a posto!"
Il vomito.

Vorrei scrivere in un altro mondo, un mondo in cui il contatto con la materia e gli altri pensieri non esiste, in un mondo in cui io mi siedo davanti a Moravia e gli dico:

"Senti, parlami di te. Anche tu non riesci a comunicare con nessuno perché tutti riducono quello che dici ad una cosa che hai detto, e ignorano le mille altre cose che quella tua parola sottintende e nasconde?"

giovedì 17 settembre 2015

Alimentare un disturbo e straniamento.

Premetto che ho letto tutti i vostri commenti e li ho applicati: ho parlato con la Responsabile, le ho detto tutto ed anche che l'anno prossimo lascerò se le cose si mettono così, se non posso rimanere con i miei ragazzi, ma non è servito a nulla.
Così svolgerò questo nuovo compito e poi, probabilmente, lascerò.

Ma adesso non è di questo che volevo parlarvi.
Ho letto tutti i vostri blog commentando qui e là, in uno stato di inettitudine spaventoso.
Ho saputo che i corsi iniziano il 28 settembre ed io, nel frattempo, avrei potuto fare un sacco di cose: andare a correre, mangiare cibo sano, dimagrire, ed arrivare a quel giorno con molti kg in meno e molti pensieri (?) in meno.

Invece... invece mi sono abbuffata quasi sempre per smettere finalmente la settimana scorsa, mettendomi in riga ma senza toccare né cyclette, né scarpe da ginnastica.
Solo lunghe passeggiate e preparativi per il compleanno del mio ragazzo, che è stato ieri.
Ho il rifiuto, una specie di nausea e stanchezza quando guardo la cyclette.
Sapete, non è facile vedere sulla bilancia 67.5 dopo aver trascorso un anno tra abbuffate e cyclette.
Odio le abbuffate, odio la cyclette.

Invece dovrei muovermi, correre, correre, camminare, pedalare.
Sapete cosa faccio?
Leggo.
Da agosto ho letto quattro libri, persino Sei personaggi in cerca d'autore, così, perché mi incuriosiva, e per farlo sapete cosa mi è venuto in mente?
Ho pescato dallo scatolone del capitolo "Liceo" il libro di letteratura e mi sono studiata Pirandello, perché ho pensato che non avrebbe avuto senso leggere quel libro senza avere prima rinfrescato la memoria.
Finito Pirandello, finiti i libri, non sapevo più cosa fare.
Allora, per alimentare la mia assoluta svogliatezza nei confronti delle scarpe da ginnastica, ho sfogliato il libro ed ho iniziato a studiare Alberto Moravia.
Non l'abbiamo trattato nel programma ma sul libro c'era.
Ho iniziato a leggere biografia, clima culturale, estratti di libri e sono andata in libreria a comprare "Gli indifferenti" e "La noia".

Tra tutto ciò la sorpresa più bella me l'ha fatta il mio ragazzo, dicendomi che "Leggi sempre libri tristi e dello stesso genere. La tua tristezza mi CONTAGIA."
è stato il massimo, perché a me il suo ottimismo non contagia affatto: che abbia una repressa vena pessimista che io porto a galla con le mie letture tristi?

Inutile spiegare che i miei libri non sono tristi, che io sono solo una sconclusionata che ne vuole sapere di più ma continua a girare attorno a cose che già sa.

Non voglio vivere nei miei libri ma lentamente sta accadendo.
Ho ultimamente capito che devo adattarmi, e nel libro che sto leggendo ne ho trovato la conferma.

"La perdita di contatto con la vita.
Dal momento che il mondo non sembra poter mutare, dal momento che l'esistenza, prima ancora del personaggio, replica sempre i modi uniformi della sua miseria, secondo un ritmo incorreggibile, dal momento che la società in cui si vive appare tanto salda da potersi considerare immodificabile ancora nella propria struttura come nella propria sostanza morale, non rimane altra alternativa che questa:
o preservare, da puri spettatori, sdegnosamente ma inattivamente, la propria fittizia innocenza, e salvare la coscienza etica sopra la povera scialuppa di una vera impotenza di fatto,
oppure approdare, oltre ogni vano sforzo di resistenza, a un normale adattamento, senza inutili clamori e senza inutile disperazione, stipulando il proprio contratto sociale, rivestendo la propria naturale maschera, al fine di essere una persona viva, come tutti gli altri, né meglio né peggio, in ultima analisi."


"se qualcosa resta in Michele di non impuro è proprio quella sua resistenza, astratta quanto ostinata, nel suo bovarismo, la sua sterile inibizione, rigorosamente traumatica, ad ogni adattamento: il suo vizio è una sola cosa con la sua virtù, con l'impotenza della sua indifferenza, che gli impedisce di ingannarsi così a fondo e così volgarmente come gli altri.
[...] qui Michele scopre una semplice verità, che se mai egli riuscisse a superare la propria indifferenza, cedendo al giuoco e alle lusinghe delle disponibili passioni falsificate,
credendo di credere,
volendo volere,
egli approderebbe sì, infine, alle spiagge della vita, ma di quella sola vitalità ormai sperimentabile che è la vitalità grottescamente irrigidita e automatica del fantoccio "stupido e roseo".
Se Michele rinunziasse alla sua inutile nostalgia, se cedesse alla illusione di un'autenticità socialmente bene adattata, se trasformasse il suo bovarismo in azione vera, la sua impotenza in buona volontà, Michele sarebbe semplicemente un Leo.
Partecipare alla concretezza del presente, del corrotto presente, guarire dai propri traumi di inibizione vitale, è possibile ormai soltanto a prezzo della propria corruzione: e reciprocamente, è possibile sottrarsi alla decadenza dell'esistere a patto di rifiutarsi, direttamente, alla vita.
E Michele, figura della nostalgia, è necessariamente, come si avvertiva, figura dell'impotenza.
Il suo essere indifferente è la ultima, miserabile forma di nobiltà etica che è concesso ritrovare all'interno di una classe che non ha più speranze di redenzione: è la nobiltà negativa dell'impartecipazione."

"Anzi, si può affermare che la rivolta di Michele è proprio per questo, nel mondo moraviano, una rivolta autentica: perché rimane nel limbo delle intenzioni e dei sentimenti, perché non precipita nella fatale distorsione pratica, che non si accontenterebbe davvero di spegnerla, ma la corromperebbe e la convertirebbe nel suo contrario."

So che questo post è pesante e noioso, so che dovrei lasciare andare questi pensieri non miei, so che dovrei smetterla di osservare le persone vivere e provare disgusto per qualsiasi discorso, so che dovrei smetterla di alternare il disperato bisogno di scappare e di pensare a quello ancor più disperato di adattarmi ed essere parte di quei discorsi.
Il cibo è l'unica cosa che mi tiene ancorata al terreno, insieme al mio ragazzo, per ora.

Ho perso la capacità di comunicare, ogni mio gesto mi appare meccanico e sfacciatamente falso.
Non capisco più chi sono, non riesco a capire se devo smettere di leggere, smettere di cercare quello che ho dentro fuori da me, smettere di trovarlo.

L'altro giorno mentre leggevo un pezzo de "La noia" mi sono messa a piangere. Ho provato un intenso desiderio di non essere, di uscire dal mondo, di non pensare più, di comunicare invece non riesco più a capire come facciano gli altri a vivere.
Io sento una pesantezza, non so più descrivere niente.
Scavo dentro di me per trovare faccende e discorsi "per terra", ed a volte ci riesco.
Non mi sento superiore, non mi sento più intelligente, mi sento solo stanca.
Eppure continuo a leggere leggere leggere, pensare sempre pensare, e penso a come è riuscito bene ieri sera il compleanno del mio ragazzo con il sushi e i cappellini stupidi con mia sorella ed il suo ragazzo, ma non basta, sento qualcosa, qualcosa dentro di profondamente distante da tutto questo.

Ho abbandonato il diario alimentare perché mi faceva stare male, e quando mi sento in questo modo terribile, fuori dal mondo, mi abbuffo per ritrovare il contatto con la realtà e ricordarmi chi sono e cosa faccio.

Ho un disturbo alimentare,
ed alimento il mio disturbo.

Ora dimagrire mi si presenta come un invitante obiettivo che non riesco a perseguire ma mi tiene impegnata, almeno un po'.

Non riesco a spiegare come mi sento, ma sento che la mia vita è riflettere.
Ho cliccato sul sito dell'università oggi ed ho letto per curiosità "Perché studiare filosofia?"
e tra tutto usciva la lista dei mestieri possibili (tre, se vi interessa) e tra questi c'era scritto
"Organizzatori di fiere, esposizioni ed eventi culturali
Organizzatori di convegni e ricevimenti"

cose nel mondo.
Saprò mai fare qualcosa nel mondo, io?
I miei pensieri nel mondo sono tutti i miei post, tutti i vostri, quelli in cui mi rivedo meravigliosamente e spaventosamente.
Ma poi ci sono questi pensieri.
Elaboro pensieri quando mi passa a prendere un amico per andare da qualche parte, quando mia madre si lava i capelli, quando preparo il compleanno al mio ragazzo.
Penso penso penso in continuazione e non ce la faccio più.
Penso alle sensazioni che provano gli altri, al bisogno di comunicare che ho ed all'incomprensione ancora più profonda in cui sono immersa.

Incomprensione non come equivoco. Come impossibilità di dare una senso a ciò che cerco di spiegare.
Ma spiegarsi sta diventando inutile ed io non so come voglio diventare. Vorrei non diventare, oppure aver scelto una facoltà come architettura, o medicina, o biologia.
Una facoltà seria che mi possa tenere con i piedi per terra.
Invece ho scelto una facoltà che mi farà diventare pazza, me lo sento.

Sono troppo incline a creare situazioni immaginarie e sogni di ribellioni vane, e dialoghi impossibili.
Sto impazzendo.
Voglio solo adattarmi.

Solo dimagrire e tornare a pensare a domani sera che ordino la pizza per undici persone, faccio un'altra sorpresa al mio fidanzato.
Non penso che la vita sia una cosa mediocre, non più dei miei pensieri fastidiosi e continui.
Penso che la vita sia una cosa molto pesante, e penso che questo mio pensare faccia parte della vita.
Sono nella vita, non sono una creatura astratta o fatta di etere, come qualcuno mi diceva.
Sono nata, viva, penso perché qualche meccanismo nel mio cervello complesso mi permette di farlo.

E questo mi fa molto soffrire.

Magari qualcuna di voi avrà colto qualcosa.
Un abbraccio.

mercoledì 9 settembre 2015

Crediamo d'intenderci, ma non ci intendiamo mai.


Faccio l’educatrice all’oratorio.
Da cinque anni, insieme ad altri cinque ragazzi, faccio l’educatrice in particolare di bambini che fanno prima media.
Li ho conosciuti che facevano terza elementare e che io ero magra, ed ho legato tanto con loro, con loro ho vissuto il campo estivo che vi raccontavo l’anno scorso, con loro ho costruito una delle poche cose belle della mia vita.
Oggi pomeriggio, dopo essere svogliatamente uscita con una mia compagna delle scuole medie, sono passata nel mio oratorio perché la responsabile dell’oratorio dove presto il mio servizio di volontariato mi doveva parlare.
Mi aspettavo tutto, mi aspettavo critiche, rimproveri, le solite cose, ma non mi aspettavo quello che mi ha detto.
Premetto che i bambini sono divisi in classi e, nel mio gruppo di animatori di prima media, c’è una ragazza in gamba che più volte la Responsabile ha tentato invano di spostare in gruppi che avessero più bisogno ma senza risultati, perché lei vi si opponeva con tutte le forze.


“Cecilia,” sono state subito le sue parole: “ho pensato di spostarti con i bambini di terza elementare. C’è tanto bisogno lì.”
Mi si è fermato il cuore.
Mentre mi spiegava alcune cose che non ho ascoltato il mondo girava velocemente ed io ho solamente pensato due cose:
!) "Avrebbe dovuto spostare Paola, non me, era lei con cui insisteva sempre ma che rifiutava da anni”
e
2) “mi devo abbuffare. Adesso.”

Forse questo secondo pensiero è stato quello che mi ha impedito di dire: “No, scusami tanto, avevi pensato a Paola per la terza elementare, perché devi separarmi dai miei bambini di prima media? Perché soltanto a causa del mio essere così debole, remissiva, obbediente e inetta devi farmi questo? Tu volevi spostare Paola: perché lo hai fatto? Io resto dove sono, con i miei ragazzi, i miei ragazzi, devo ancora fare tanto con loro…”.
Infatti, invece, un “Ok perfetto, va benissimo” che ho pronunciato distrattamente è stato sufficiente a farmi essere fuori di lì in meno di cinque minuti.

Un quarto d’ora ed ero a casa, in lacrime.

È arrivato il mio ragazzo a salutarmi ed io come una scema ho pianto anche di fronte a lui per questa immensa cazzata, lui che come sempre ha difeso la responsabile dicendo, giustamente – e forse questo, la consapevolezza che avesse ragione, mi ha ancor più distrutta – che io presto un servizio gratuito, lì, e non sono lì per amichevolizzare con dei ragazzini ma per aiutarli, fornirgli una valida alternativa a ciò che nella società viene offerto loro; non è servito a nulla nemmeno presentargli la mia ipotesi che avesse spostato me perché sono la più arrendevole, la più debole, quella che non dice ciò che pensa, che non si ribella, perché lui mi ha interrotta subito dicendo che erano sciocchezze, che io in quel momento ero in servizio, che semplicemente volevano contare maggiormente su di me perché di me si fidavano.
c'era bisogno in terza elementare? Hanno mandato me, punto. Sono una volontaria, punto.

Io l’ho sempre detto che il mio ragazzo è dolce ed intelligente, sempre così giusto, ragiona molto, non accusa mai nessuno se non chi ha effettivamente torto insomma, un vero paladino della giustizia.
Ma io, vedete, ho avuto scioccamente bisogno di qualcuno che mi dicesse “Si cazzo, hai ragione, che manica di stronzi!” e che accogliesse il mio sfogo.
Infatti, sapendo che il mio ragazzo avesse pienamente ragione e che il mio fosse solo un ingiusto capriccio, l’ho fatto dolcemente tornare a casa dove lo aspettavano (non l’ho mandato via, semplicemente non l’ho trattenuto), e con il sorriso gli ho detto “Grazie di esistere, mi tranquillizzi sempre così tanto!”
sono entrata in casa, ho aperto gelato, patatine, uova, zucchero, farina per fare uno zabaione veloce ed ho mangiato tutto.
Insomma mi sono chiusa in me stessa consapevole di
-avere torto
-non sapere cosa fare che escludesse il lamentarmi
-volermi assolutamente dedicare a qualcosa d’altro.
Ho deciso così di sedermi e, per una volta, analizzare una mia abbuffata.
È così semplice, così sciocco, così … banale!

Io sono lì a prestare un servizio, di certo nessuno ha pensato “c’è bisogno, Paola non possiamo spostarla perché ci sputa in faccia, spostiamo cecilia che tanto dice sempre si perché non ha polso!”
E sicuramente vedermi aumentare di peso non indurrà in nessuno il sospetto che “forse nessuno le sta accanto tranne il cibo… non forziamola!”
Quello che mi fa più male delle mie abbuffate è che è una semplicissima opera di vittimismo.
Puro vittimismo. È ovvio, mi sembra, che nessuno verrà mai a dirmi “Stellina, ti abbuffi, fatti abbracciare!, non ti spostiamo da nessuna parte, rimani con i tuoi ragazzi!” se per prima non lo chiederò io; dunque, visto che io non lo farò, è tutta una questione di sentirsi vittima.

Come rimediare?
Eppure, essendomi abbuffata ora, mi sento bene. Sono grassa, la bilancia segna 68.5, però ora sto bene. Penso in continuazione a mangiare mangiare mangiare, niente può farmi male, nemmeno il mio vittimismo.
Mi lamento, mi abbuffo eppure sto bene.
Ma non lo dico, stranamente, per sentirmi dire “non stai affatto bene, se sei qui a scrivere”, perché questo già lo so (anche se, lo ammetto, quando qualcuno mi dice che “sicuramente sto male”, quando anche io me lo dico, è un grande orgasmo, chissà perché); lo dico perché ora come ora non riesco a capire per quale altro motivo, se non per dimagrire, io dovrei voler smettere di abbuffarmi.


Boh questo post non è commentabile ma lo scrivo.

 
Non so più comunicare.